DOMENICO FALCONE – LILITH

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“L’opera dell’artista Falcone qui esposta,  per i contenuti e le forme audaci e provocatorie può essere interpretata in diversi modi e potrebbe altresì turbare la sensibilità di alcuni visitatori (in particolare di bambini e ragazzi minorenni).
I responsabili della Biblioteca, pur non volendo limitare l’espressione artistica del sig. Falcone e nella consapevolezza  che tale mostra sarà visitata sia da un pubblico adulto che da bambini e ragazzi, ritengono opportuno che tali opere siano esposte separatamente”
(cartello affisso dagli organizzatori, all’entrata della mostra collettiva ARTEOGGETTO ’01, Comune di Buja, Udine – Sett./Ott. 2001).

Ad onore della dignità storica degli organizzatori della mostra citata in apertura, diciamo che Falcone, nato provinciale, vede la provincia come teatro dove esporre la crisi. Essa non è un territorio fisico, semmai la metafora di un ambiente in cui un certo uso della libertà di espressione può fare ancora un po’ male, in quanto fattore accelerante di un ascolto profondo e turbativo. La possibilità di osare non è dunque conquista sociale ma gancio rivolto ad una tradizione sepolta – quella delle nonne delle nonne – e ad una certa possibilità di dare ai nervi il presente – quello dei nonni dei nonni.

Falcone, nato nel ’61 in provincia di Foggia, ha il merito di dipingere un contesto organico e disturbante del mondo popolare del secolo scorso, che si radica a metà tra il fiorire affollato dell’arcaico contadino, l’Art Brut e il senso di appartenenza seriale alla macchina urbana del mondo operaio, quell’Iveco che muove da un luogo all’altro suo padre e la sua famiglia. Tra la Puglia Dauna del Trapezophoros (IV sec. a.C. ), un enigma marmoreo di rara bellezza e inattualità, e la periferia più cruda della Torino dell’emigrazione massificata, quasi non ci si accorge del lascito invadente degli anni di piombo. Più che un fulmine ed un momento armato, è infatti un piombo calibrato, bambino, è un piombo costante e diffuso nell’atmosfera, quello che circonda l’immaginario di Falcone e di chi cresce nell’universo disegnato dall’industria, dalla borghesia urbana torinese. Quella che sistema gli operai nei quartieri dormitorio facendo i conti senza l’oste di un enorme rimosso sociale, e che dovrà parare presto i colpi di una massa culturale di difficile leggibilità. Un’onda “barbara” invade la città sabauda. Da una parte la reazione dei torinesi che è di netta chiusura, dall’altra, il fascino politico della nuova sfida civica dell’inclusione, creano una zona grigia fatta di abitanti contemporaneamente con e senza speranza che nel corso dei decenni successivi acquisirà un peso indulgente o rancoroso.

Vincere la personale battaglia per la dignità economica, trovare un lavoro vero da ‘otto ore’, poneva delle condizioni di spaesamento nuove, come quella dell’uso del  tempo,  il tempo libero, che dovendo in qualche modo passare, paradossalmente poneva le basi per micro regni.  Sottoculture nostalgiche e sradicate si ponevano come diaframmi di isolamento ed erano condizione di crisi e nemesi dell’inclusione sociale. La provincia indomabile, non privata della noia, si ribella ad ogni Roma della storia, e da sottocultura nostalgica si trasforma in controcultura arrabbiata. Sono gli anni in cui tutto il mondo occidentale vede all’interno delle proprie città la nascita di isole di pensiero oppositivo giovanile dal sapore universalistico. E’ qui che la provincia di Foggia, Brooklyn, Tokyo e Città del Messico battono talvolta allo stesso ritmo, pur senza conoscersi e proponendo soluzioni differenti a questa strana eccitazione.
Le ore in strada e le problematiche annesse alla vita di periferia, però, rimangono intatte. L’angoscia dell’iniziazione sessuale è filtrata dal bar, dai dintorni della scuola. La necessità di essere adeguati alle sfide dell’essere adulti da una parte e la voglia di rimanere ancorati con tutti i mezzi al mondo dell’infanzia dall’altra. La storia di un dilemma e di un rapporto irrisolto col tempo che passa. L’infanzia emerge con i rituali apotropaici del racconto esplicito, dello scatologico puro, del sadismo ingenuo.

DISTINGUERE IL SACRO

Dalle rose nascono le spine, bocca di spine

Distinguere il sacro nella messe di mostruosità animata dalle opere di Domenico  Falcone sembra difficile quanto comprendere il senso di una lingua desueta, ma della quale si conoscono le origini.
Si può aprirne la scatola e rintracciare i codici nell’Espressionismo Tedesco, nelle bambole maniacali di Hans Bellmer, nell’ Art Brut, nell’Informale  Italiano del secondo dopoguerra, nelle oblunghe e scabrose figure di Sarah Lucas (di cui sono praticamente contemporanee, ndR), nel sottopunk urbano degli anni ’90 e persino in qualche recente monumentalità sottomarina di Damien Hirst.
Si può altresì fare appello alla parodia del mito per scrollarsi di dosso l’orrido del primo impatto visivo. Sembra anzi persino naturale trovarvi fin da subito un qualche comico incedere degli elementi in una parata spettrale e allo stesso tempo infantile.
Si può propendere per una visione kitsch, come tentativo di tenere a bada la realtà attraverso una reificazione dell’immondizia. Un esagerare per non vedere il mucchio di terra che diventa montagna.
Si può scegliere un clima interpretativo di risoluzione di indizi, segni che penzolano dallo psicanalitico al sociale sul filo del lavoro di artisti come Julien Friedler o Jan Fabre.
Si può cogliere persino l’ironia di un ritmo visivo ossessivo, che, come una sorta di preghiera  giaculatoria instilla un archetipo invertito del mito di Medusa.
Ma, come detto in apertura, distinguere il sacro dal profano in Falcone, con la sua storia e la sua necessità così connesse e peculiari ai luoghi che via via ha abitato, è difficile, se non impossibile.
Laddove provi a rimuoverne il sacro ti ritrovi la vibrazione della preghiera e dove setacci via il profano ti ritrovi con il trash e la parodia.

THE STEPFORD WIVES – LA FABBRICA DELLE MOGLI – MUPPETS
Nel 1972 in America esce un libro di Ira Levin, e nel 1975 un film di Brian Forbes intitolati “The Stepford Wives” –  tradotto in Italiano con “La fabbrica delle mogli”. È una parabola distopica e fantascientifica che vede gli uomini di una cittadina nel Connecticut di nome Stepford, programmare ed operare alla sostituzione delle loro mogli con delle androidi perfettamente identiche ma accondiscendenti, disponibili e non problematiche, ricreando un ideale pubblicitario anni Cinquanta.
Vi è anche un remake non felicissimo del 2004 del grande Frank Oz (inventore dei Muppets, ndr)dal titolo in italiano “La donna perfetta”, con Nicole Kidman, che ne toglie quasi completamente l’aspetto horror e ne fa una grottesca parabola anticonsumistica con toni da farsa citazionista. Se in quest’ultimo, adeguandosi alla tecnologia più recentemente comprensibile, le mogli non vengono sostituite ma semplicemente teleguidate da microchip nel cervello, quelle del libro e del film degli anni ’70, vengono proprio uccise e sostituite da esseri senza sangue.
Nelle donne di Domenico Falcone sono presenti entrambi gli aspetti. L’aspetto della tragedia è dato dalla contraddizione tra l’impianto di sabba, di post-inquisizione, di crudo, di ipersessuato degenerato, e quello di cucciolo, di malinconico, di destinato alla sola meta dell’estinzione.
L’aspetto del gioco viene incarnato invece dai materiali stessi che invitano a vedere i personaggi come pupazzi, dei muppets nudi e macabri, oppure come personaggi di un horror farsesco, come di fronte ad un film di Romero, come a scacciare l’horror dal campo della sottigliezza che taglia a morte e lasciarlo scorrere nel campo aperto della grossolanità, che in fondo è sempre immerso nella matrice vitale che ciclicamente rinasce.

DOMENICO FALCONE
L’uomo della strada oppure La seduzione dell’orribile oppure Sostanze pericolose oppure Sabba.

Se chiedessimo all’uomo “della strada” di dire che cosa si provi di fronte alle opere di Domenico Falcone senza conoscerlo, esso potrebbe riferire di un artista disturbato e forse traumatizzato, con un approccio maniacale e gravido di disprezzo per il femminile. Oppure, in un’ottica più indulgente e umoristica, lo potrebbe definire un “fulminato” e collocarlo in un girone insieme agli strani e a quelli che da giovani hanno esagerato con le sostanze pericolose.
Chi conosce Domenico Falcone, invece, viene colpito subito dalla estrema umanità e naturalezza, dall’allegria e dalla voglia di parlare, progettare e realizzare arte, come se in fondo il motore di tutto il suo lavoro si inneschi in un processo estremamente comunicativo che preveda gli altri come termine necessario di una sorta di vocazione a provocare.
I materiali e i contenuti, in larga parte sculture e dipinti, pur essendo accomunati da una sorta di enfasi da mondo magico, sono abbastanza da assumere via via le sembianze nostalgiche di un informale italiano, di un certo cinema espressionista tedesco e di una sorta di humour osceno britannico che finisce per permeare in generale il suo lavoro. È l’autore stesso a definire il suo chiaro intento:
“Considerato che sulla seduzione del bello non ci sono discussioni quello che veramente suscita il mio interesse è la possibilità della seduzione dell’orribile.” Sorride.
La seduzione dell’orribile è però una formula vana, se non vista come l’altra faccia di una pulsione immaginifica altrettanto potente: la fuga dall’orribile.  La tensione generatrice è presente-assente. L’orribile si pone quale rapporto di risoluzione con il quotidiano dal momento in cui la realtà sembra impossibile da decifrarsi perché ostica da vivere e da accettare.
Ma di quale realtà stiamo parlando?
Una realtà biografica fatta di operai, emigrazione, periferie industriali, amori infantili impossibili, paura e noia.

Domenico Falcone nasce a Sen Severo, provincia di Foggia, nel 1961, da famiglia operaia e resta lì fino all’età di 8 anni. Nel 1970 il padre, che lavora nell’azienda  Lamborghini Trattori, viene trasferito a Torino.
Vanno ad abitare in Via Onorato Vigliani, in un quartiere considerato una sorta di Bronx Torinese, dove succedono cose che il bambino appena trasferito non comprende appieno.
Dice Falcone: “Via Onorato Vigliani, una zona terribile, un vialone enorme dove non c’era luce e sotto ogni albero c’era una prostituta.  In via Arthom bruciavano i copertoni. Facevano i falò e buttavano le bombolette vuote tipo bombe. Io abitavo in un palazzone e di fronte ce n’era un altro. Mi ricordo che comunicavo dal mio balcone con una ragazzina, che rispondeva dal suo. A un certo punto suo fratello, che non vedeva di buon occhio la cosa, per impressionarmi, uscì sul balcone, prese il suo gatto, lo riempì d’acqua e lo lasciò andare giù.
Non ho mai più cercato quella ragazzina.”
A Torino resta cinque anni, poi sempre per via del lavoro paterno, si trasferisce a Bra e frequenta l’ITIS a Fossano. Qui avviene un cambio totale. Fossano è un posto molto influenzato dalla Chiesa, e nonostante ci fossero comunque dei problemi, aver vissuto a Mirafiori Sud regala una specie di aura di intoccabilità e persino il coraggio di picchiarsi con uno di quinta. Ma rimarrà un episodio isolato. Un ritrovato relax che in breve tempo si trasformerà invece in una gabbia religiosa.
L’insegnante di religione, che era prete, per esempio:  “cercava il consenso promettendo diplomatici aggiustamenti di insufficienze in sede di consiglio dei professori.”
La diplomazia era la chiave di tutto. “Una volta, durante una sua ora avevo tra le gambe un libro dal titolo: ‘Perché non sono cristiano’.  Lui impassibile replicò: ‘Intavoliamo l’argomento’. Le bagarre dialettiche con l’insegnante di religione e di italiano sono tra i ricordi più belli di Fossano e rappresentano precisamente anche l’incontro che faccio personalmente con l’arte. Fu una discussione su ‘Merda d’Artista’ di Manzoni . Per qualche motivo presi subito le parti dell’artista milanese e lo andai a cercare e studiare a casa, da solo.”

Il repellente come triviale, ovvero quasi come incontaminato. Un lavoro che urlando con cattivo gusto spera di farsi ascoltare da sordi. Ma il cattivo gusto non porta mai ad un distacco talmente elevato da perdere il contatto con l’humour, una sorta di rovesciamento carnascialesco del pieno e del vuoto, un punto di vista irriverente sugli stereotipi del femminile. Un teatrino liberatorio che si pone alla ricerca di alcune energie misteriose e le mette allo stesso livello di quelle razionali, forse per esorcizzare la possibilità che esistano mondi così distanti da non potersi fare neanche la guerra.

Personale a cura di:
Franz Paludetto e Fabio Vito Lacertosa
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